“La buona antropologia ci insegna che l’esotico è singolarmente vicino, e il gran merito del libro di Aime è di avercelo confermato ancora una volta”.
Jean-Loup Amselle
Marco Aime prova a rispondere a questa domanda utilizzando gli strumenti dell’antropologo nell’analisi di alcuni momenti e luoghi della quotidianità pubblica: la parata del 2 giugno, la percezione «magica» della Borsa e del potere finanziario o il modello disviluppo del sistema ferroviario. Ne emerge una società incapace di trovare principi condivisi e caratterizzata da una struttura ufficiale debole cui si contrappone una antistruttura forte, ma disarticolata, che impedisce il nascere di una coscienza collettiva. Da qui deriva la criticità del rapporto tra cittadino e Stato, un’istituzione che nel nostro paese conserva i tratti tipici dei regimi autoritari, sebbene celati nelle pieghe della legalità.
Il metodo e gli esiti di questa indagine saranno discussi insieme all’autore giovedì 5 giugno alle 18.00 alla libreria Libre! in via Scrimari 15b.
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Marco Aime, dall’introduzione a “Etnografia del quotidiano”
Bringing it all back home
Perché un antropologo si trova a occuparsi dell’oggi e del qui? Per “comune decenza” si potrebbe dire, evocando George Orwell. Perché lavorando per una istituzione pubblica, quale è l’università, sostenuta economicamente dal contributo di tutti i cittadini, a volte si sente il bisogno di portare un piccolo e modesto apporto alla comprensione della società in cui si vive quotidianamente. Per certi versi si tratta di un problema di “restituzione”, tema quanto mai dibattuto nell’antropologia contemporanea e giustamente riferito in genere a popolazioni lontane.
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L’antropologo generalmente fonda le sue ricerche di terreno e spesso costruisce la sua carriera accademica sulla benevolenza, sulla pazienza e sulla competenza delle persone che lo aiutano quando è sul campo. Quando poi torna a casa, si mette dietro a un computer e scrive di e su quella gente, raccontando di loro secondo la propria visione e la propria interpretazione. Nella maggior parte dei casi, soprattutto in passato, accadeva che quelle persone, che tanto avevano collaborato alla ricerca, finissero nell’album dei ricordi se non nel dimenticatoio. E quasi mai la comunità o il gruppo studiato potevano vedere, discutere quanto era stato scritto su di loro.
Riflettere, utilizzando gli strumenti a disposizione dell’antropologo, su alcuni aspetti della propria società, è un tentativo di condividere con altri membri dello stesso gruppo delle possibili letture di alcune criticità e di alcuni aspetti socio-culturali caratteristici della nostra epoca.
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Due aspetti emergono in maniera forte da questi saggi: il primo è l’immagine di una società che sembra non credere ai propri stessi principi, che presenta una struttura ufficiale debole, ma una forte, sebbene disarticolata antistruttura, che agisce in modo disordinato, impedendo il nascere di una coscienza collettiva. Il secondo, conseguenza del primo, è la criticità del rapporto tra Stato e cittadino, che nel nostro paese conserva ancora tratti caratteristici di regimi autoritari, anche se celati nelle pieghe della legalità.
Nel primo saggio un’analisi antropologica della parata del 2 giugno, cerca di mostrare in che misura lo Stato si identifichi molto di più nel suo aspetto bellico-militare che non nella società civile.
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Un altro elemento piuttosto significativo del nostro paese è che in molti casi il rapporto Stato-cittadino è asimmetrico. Il cittadino viene trattato da suddito, cosa che non dovrebbe accadere in uno Stato che si proclama democratico. Nel saggio intitolato Doppio binario ho usato il caso delle ferrovie, metafora quanto mai ricca ed esauriente dell’evoluzione della società italiana, per mettere in luce tale disparità di trattamento e molte delle modalità che confermano come il nostro rapporto con lo Stato sia prevalentemente conflittuale, anche a causa di un atteggiamento tendenzialmente vessatorio del primo nei nostri confronti.
Anche Un treno, una valle, prende spunto dagli eventi della val di Susa, per riflettere sul concetto di democrazia partecipata e di bene comune, due aspetti tra i più dimenticati nel dibattito pubblico nazionale, che nel caso specifico del progetto dell’alta velocità/capacità, si traducono in uno scontro tra un’idea quasi integralista di sviluppo, inteso come crescita assoluta e continua e una concezione di gestione della cosa pubblica, che parte dal basso. Se di democrazia ancora si tratta, la nostra è certamente incompleta e per molti versi irrisolta, con una evidente tendenza all’allargarsi della distanza tra Stato e cittadini.
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Paese dall’«identità timida» (la definizione è di Ilvo Diamanti) l’Italia conosce ancora molti localismi, che da un lato contrastano lo Stato, ma dall’altro ne godono i benefici. Localismi che si sono tradotti, negli ultimi due decenni, anche in politiche di esclusione e in alcuni casi, di matrice razzista. L’eterno stato di emergenza che sembra caratterizzare la vita civile del nostro paese, ha impedito che si avviasse una seria riflessione sul passato. La conseguenza è il non aver mai saputo fare i conti con il colonialismo, nascosto in qualche pagina marginale dei manuali scolastici e ignorato dai media, con il conseguente consolidamento del mito degli “italiani brava gente”; con il fascismo, che si manifesta ancora oggi in forme diverse, talvolta anche istituzionali; con il problema delle migrazioni, per cui la memoria di decenni di emigrazione forzata è stata rimossa in un baleno, per lasciare spazi ad atteggiamenti di rifiuto nei confronti di chi oggi subisce la stessa sorte dei nostri nonni. È questo il tema centrale del quinto saggio dal titolo Nuovo tribalismo e i difficili conti con il passato.
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Tre diamanti è infine una riflessione, forse un po’ ironica, ma non troppo, sulle sorprendenti analogie che ricorrono tra il mondo della finanza e le credenze di stregoneria. In entrambi i casi ci si trova a confrontarsi con forze che non controllabili dall’individuo coinvolto e in entrambi i casi si pensa di ottenere grandi vantaggi, utilizzando strumenti che sono al di fuori di quelli quotidianamente usati e del nostro controllo. Tanto in Wall Street quanto nello stregone, occorre credere ciecamente per frequentarli.
Questi piccoli saggi sono un modesto contributo a una riflessione su noi stessi e forse, proprio perché come dice Jean-Loup Amselle «tutta l’antropologia è politica», sono un modo di fare politica. Una restituzione alla comunità che condivido e che spero possa essere migliore di quanto non lo sia adesso.